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Sa chena ‘e sos mortos PDF Stampa E-mail
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Martedì 01 Novembre 2016 17:28

Un piatto di ciciones in più alla cena del 1. Novembre apparecchiato per i morti di famiglia, che lo avrebbero consumato facendoci visita a mezzanotte in punto…

di Carlo Patatu

Il pellegrinaggio al cimitero, a piangere e a pregare sulle tombe dei cari, lo si compiva (lo si compie) soprattutto nel pomeriggio del 1. Novembre.

Il custode (su becchinu) provvedeva per tempo a zappare i campi con le sepolture, eliminandone le erbacce e mettendo bene in evidenza i tumuli contrassegnati da croci di legno pitturate alla buona cun colòres sèrios[1] (con smalto bianco quelle dedicate ai bambini in su quàdru ‘e sos pizzìnnos[2]) e da quelle, allora non numerose, in marmo di Carrara con tanto di medaglioni in porcellana con le foto. Il camposanto, che nel resto dell’anno si presentava ricoperto da una rigogliosa vegetazione spontanea, già sul finire di Ottobre appariva pulito e ordinato, con sas caminèras,[3] allora sabbiose, diligentemente pettinate col rastrello.

I visitatori, in genere col volto atteggiato a mestizia, affollavano campi e viali per compiere il malinconico pellegrinaggio, spostandosi da una sepoltura all’altra, leggendone i nomi incisi su targhe marmoree e (dov’era possibile) qualli malamente trascritti con lapis copiativo su modeste croci di legno. Talvolta malferme perché corrose dall’umidità e dal tarlo. I ragazzotti[4], invece, facevano tutt’altro. Si divertivano a prendere di mira le coetanee con lanci sgraditi di mazzacàne, la bacca del cipresso. Un modo piuttosto rustico e grossolano per richiamare la loro attenzione. Di fatto, la cosa sortiva l’effetto contrario. Ciononostante, a noi maschietti piaceva insistere con quel gioco bislacco, per niente simpatico. E che, per giunta, non tornava neppure gradito alle destinatarie.

In paese non c'erano serre. E nemmeno fiorai. Per l’occasione ci si arrangiava cogliendo soprattutto fiori di campo. Erano in pochi ad avere il giardino in casa. Ecco perché il camposanto, più che di addobbi floreali, lo si disseminava di lumini di cera. Che, all'imbrunire, conferivano a quell'oasi di pace eterna un aspetto sinistro. Inquietante. Le fiammelle tremule, per chi come me era cresciuto col terrore dei fantasmi, altro non erano se non la metafora dei morti che, al calare delle tenebre, fuoriuscivano dai sepolcri per librarsi in aria. A compiere la rituale odissea notturna. Per volare chissà dove. E chissà perché. Nessuno me lo sapeva spiegare in modo convincente. Ma io ci credevo lo stesso.

Per la festa di Ognissanti e la successiva Commemorazione dei Defunti, la chiesa parrocchiale si presentava rigorosamente parata a lutto. Un grande arazzo di velluto nero, con una croce argentata appuntata al centro, copriva per intero l'edicola dell'altare maggiore, nascondendo alla vista la preziosa statua lignea di san Matteo, patrono del paese. Che, per un paio di giorni, doveva starsene un po’ in castigo. Come a scuola dietro la lavagna. Nella navata centrale, tra il pulpito e la balaustra, il parroco Dedola[5], coadiuvato da solerti chierichetti, allestiva un catafalco monumentale. A due piani, realizzato con altrettanti tavoli sovrapposti (uno grande, l’altro piccolo) e ricoperti da un enorme paramento di velluto nero bordato con frange dorate. I quattro angoli di quel drappo gigantesco lambivano il pavimento di marmo e ardesia ed erano impreziositi (si fa per dire) dal ricamo argenteo di altrettanti teschi spaventevoli, che sormontavano un paio d'ossa composte in forma di croce di Sant'Andrea. Roba da fare accapponare la pelle! Specie nelle ore pomeridiane, quando la chiesa era semibuia e le fiamme tremule delle candele ingigantivano le ombre. Altrettanto tremule. Per fortuna dei bambini di oggi, quella consuetudine è scomparsa. Grazie all’ultimo concilio ecumenico, credo.

Ma il ricordo per me più angosciante resta legato alla vigilia del 2 Novembre. Si cenava per tradizione con un piatto di ciciònes (i tipici gnocchetti sardi). Fatti in casa, conditi con ragù di carne suina e formaggio pecorino prodotto da nonno Pulina. Nella circostanza, mia madre apparecchiava un coperto in più. Collocandovi accanto posate, bicchiere e tovagliolo. Eravamo in otto; ma al desco serale del 1. Novembre i posti a tavola erano solitamente nove. A cena finita, quel piatto in più non veniva sparecchiato; ma rimaneva al proprio posto. Ricolmo di ciciònes ben conditi. I defunti (i nostri, quelli di famiglia, assicurava mia madre) sarebbero venuti a farci visita più tardi e avrebbero cenato al nostro desco. Come quand’erano in vita. Lo avrebbero fatto a mezzanotte in punto. Così voleva la tradizione.

Andato a letto, tardavo a prendere sonno, atterrito dall’idea che un qualche fantasma potesse attraversare agilmente i muri di casa per sedersi a tavola. Magari passandomi accanto, fino a lambirmi la fronte con una carezza. Trattandosi di fantasmi di famiglia, ero più che sicuro che non mi avrebbero fatto alcun male. Perché mai? Eppure, standomene al buio e nel silenzio della notte, all’epoca pressoché assoluto, sussultavo al solo udire un qualche tramestio o un qualsiasi rumore proveniente dal cortile attiguo. Fino a quando il sonno, provvidenziale e profondo, s’incaricava di dare un calcio a ogni mia paura e inquietudine.

Manco a dirlo, il mattino seguente quel piatto di ciciònes era ancora lì. Intatto. Posate sempre lucide, tovagliolo ugualmente pulito e ben riposto. Nulla indicava che qualcuno vi avesse posto mano. I nostri morti non avevano gradito? O forse avevano preferito un’altra tavola meglio imbandita? Non capivo. Poco male. In ogni caso, insisteva nel rassicurarci mia madre, quel che contava era il pensiero. E poi la consuetudine andava rispettata. Immancabilmente.

Divenuto giovincello, ormai smaliziato e col permesso di rientrare a casa tardi, non sapevo resistere alla tentazione di far fuori quei ciciònes succulenti e saporiti destinati, chissà?, alle anime sante di nonni, bisnonni, zii e quant’altri della famiglia erano già passati a miglior vita. Con la complicità, qualche anno appresso, di mio fratello Tore. Che, nel frattempo, era cresciuto e aveva capito anche lui come stavano le cose. E così l’alba del 2 Novembre continuava a rischiarare quel piatto solitario sul tavolo di cucina; ma ripulito a dovere del contenuto. Sapeva bene nostra madre quali "anime" avevano fatto fuori i suoi ciciònes saporiti. Ma non le importava gran che. Era dell'idea che, come per la preghiera, valeva soprattutto l'intenzione. E lei l’intenzione ce la metteva tutta. Sempre.


[1] Con colori discreti.

[2] Un apposito campo dedicato ai bambini e che ora non c’è più.

[3] I viali che delimitavano i campi.

[4] Sos pizzìnos puzònes, e cioè i monelli.

[5] Cfr. Su Vicariu in CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 55-61.

Ultimo aggiornamento Martedì 01 Novembre 2016 17:37
 

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