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I diritti universali delle persone |
Lunedì 10 Dicembre 2018 20:40 |
Un atto fondamentale, sottoscritto dall’Assemblea dell’ONU nel 1948, li mette nero su bianco. Ma c’è ancora tanta strada da fare; anche nel nostro Paese di Carlo Patatu Questa odierna è una data storica: ricorre il 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Il testo di quel documento fondamentale, redatto dalla commissione presieduta da Eleanor Roosvelt[1], fu approvato a Parigi il 10 Dicembre di settant’anni fa da 48 dei 58 membri che allora formavano l’Assemblea delle Nazioni Unite. Otto di astennero e due non presenziarono alla seduta. Alla quale non partecipò l’Italia perché non ne faceva ancora parte. Aderì all’ONU soltanto nel 1955. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Questo l’incipit della Dichiarazione. Nella quale, va sottolineato, non si parla di uomini e donne, ma di persone, di esseri umani. Un atto storico, quindi. Che però affonda le radici in precedenti illustri, che vanno da un celebre e celabrato discorso di Pericle agli ateniesi (431 a.C.) al Bill of Rights del Regno Unito (1689), alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776), alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino promulgata nel 1789 nel corso della rivoluzione francese. Il Secolo dei Lumi, il Settecento appunto, aveva lavorato bene su quel terreno, per cui i frutti non tardarono a maturare. Aveva fatto breccia nella società del tempo, ed era ora, la consapevolezza che ogni individuo nasce libero e portatore di diritti, oltre che di doveri. Pertanto i tempi erano maturi e non si poteva fare a meno di metterli nero su bianco quei diritti fondamentali, che erano riconosciuti soltanto a chi si trovava in condizione di farseli riconoscere. Ma quali diritti? Libertà ed eguaglianza, prima di tutto. I diritti dell'individuo nei confronti della comunità; i diritti politici, economici, sociali e culturali, racchiusi nella cornice delle libertà fondamentali: di pensiero, di opinione, di fede religiosa e di coscienza, di parola e di associazione pacifica. Al di fuori e al di sopra del colore della pelle, delle etnie, della condizione di genere. Tutto ciò, oggi, appare quasi naturale ai nostri occhi. Chi non è anziano come me è nato e cresciuto in una comunità dove tali principi fanno parte della nostra cultura, oltre che della Costituzione repubblicana. Che quei principi li aveva già fatti propri con deliberazione solenne del Parlamento il 22 Dicembre 1947, promulgata da Enrico De Nicola, Capo Provvisorio dello Stato, cinque giorni dopo. Un solo dato, a titolo di esempio: in Italia, prima del 1946, alle donne non era riconosciuto il diritto di voto. Che esse poterono esercitare, per la prima volta, in occasione delle elezioni amministrative del Marzo di quell'anno e quindi il 2 Giugno successivo, in occasione del Referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente. Della quale fece parte anche un oriundo chiaramontese, Battista Falchi-Cocco (1904-1988). Tutto bene, dunque? Ma neanche per idea! Molti (troppi) di quei diritti sono rimasti ancora sulla carta. In tanti Paesi del mondo non hanno trovato gambe sufficientemente robuste perché potessero mettersi in cammino e fare il percorso dovuto. Ma anche in Paesi cosiddetti evoluti e moderni taluni di quei diritti faticano a essere riconosciuti e resi agibili. Anche da noi, in più circostanze, il riconoscimento dei diritti e dei doveri pare essere, a volte, un accessorio, un qualcosa di opzionale che stenta a emergere dal marasma della burocrazia e dalla melassa che spande a piene mani chi sta a Palazzo. “La democrazia - sosteneva Winston Churchill – è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora”. E aggiungeva che ” …essa funziona quando a decidere siamo in due e l’altro è malato”. Il che significa che quella forma di amministrare la cosa pubblica non è agevole da praticare; non la si conquista una volta per tutte, ma la si costruisce e la si consolida giorno per giorno. Con pazienza e determinazione. Nella consapevolezza che i problemi delle comunità non sono mai semplici da risolvere. Che men che mai li si può affrontare a suon di slogan di effetto sicuro, ma di consistenza e utilità pressoché nulle. Questo dovremmo tenere a mente in ogni momento, partecipando e non stando alla finestra a reclamare il solo diritto di mugugno. Nel suo discorso d’insediamento[2], John Fitzgeral Kennedy lanciò agli americani un monito: “…non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”.
[1] Vedova del 32° Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosvelt. [2] Washington, 20 Gennaio 1961.
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