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Il colonnello Alberto Bechi-Luserna |
Sabato 16 Febbraio 2019 14:15 |
La vicenda triste di un ufficiale dell’Esercito, ucciso a proditoriamente nell’adempimento del dovere e dimenticato per ragioni di bottega politica di Orazio Porcu Ogni popolo, ogni Nazione ha i suoi eroi: personaggi che da soli o alla guida di masse di cittadini hanno compiuto imprese che sono rimaste impresse nella memoria e spesso nella fantasia; personaggi che meritano di avere intitolata una piazza, una via centrale nelle grandi città. Vengono poi quelli che ci hanno lasciato grandi opere dell’ingegno: opere letterarie, invenzioni ecc. (personaggi che meritano anch’essi una importante citazione nell’onomastica cittadina); vengono, in fine, gli eroi più umili: quelli che hanno semplicemente obbedito nelle situazioni più difficili a un impulso morale (sono gli eroi che non trovano posto nemmeno in qualche riga dei sussidiari di scuola elementare!) . Per anni ho conservato la convinzione che quest’ultima fosse la sorte del tenente colonnello Bechi-Luserna! Negli anni 1945-1948, a Macomer, ho frequentato le classi 4a e 5a elementare e 1a media. I fatti erano ancora recenti. Per rientrare a casa, all’uscita della scuola, mi capitava di dover passare nella stazione ferroviaria, a quell’ora affollata di capannelli di ferrovieri, alcuni di essi facevano servizio lungo la ferrovia nella zona dove si era consumato il delitto. I fatti erano ancora troppo recenti e, seppure a mezza voce, si continuava a commentarli. Ragazzino curioso, come tutti i ragazzini, mi fermavo a orecchiare i discorsi dei grandi. Appresi così di quanto era successo a poca distanza da dove mio padre lavorava. Le tesi erano contrapposte e, spesso, animosamente sostenute. Chi sosteneva che si era trattato di un regolamento di conti tra ufficiali dell’esercito e chi, invece, iniziava a intravvedere in quel fatto una motivazione politica. Mio padre era equamente combattuto tra i suoi sentimenti antimilitaristi e il suo radicale antifascismo: propendeva per questa seconda ipotesi. Avvalorata, secondo lui, dallo strano e persistente silenzio che, sulla vicenda, osservava l’esercito: c’erano ancora troppi ufficiali, in qualche modo interessati a tacere su fatti che li avrebbero dovuti vedere protagonisti e di fronte ai quali, invece, si erano lavati le mani e la coscienza. Nella vita civile, del resto, molti dei funzionari della pubblica amministrazione erano rimasti al loro po. Ao, molti podestà si erano visti nominare “commissari prefettizi” e continuavano a governare le comunità locali con grande tranquillità e assoluta indifferenza sul loro recente passato. Nell’amministrazione militare, poi, le scorie del fascismo erano destinate a durare ben più a lungo: alla fine degli anni ’50, chiamato sotto le armi per il servizio di leva, ho avuto modo di poterlo constatare di persona! Per la verità quelle scorie non si manifestavano tanto in aperta nostalgia del regime quanto nei miti: l’uomo forte, l’efficienza fisica, nel grande insostituibile passato storico dei Romani e degli Italiani; ma soprattutto nei rapporti tra gli ufficiali e “la truppa”. Per rendersene conto era sufficiente essere appena politicamente avvertiti! Fatti, anche se appresi dai racconti dei grandi, di un grave e discusso episodio di sangue, destinati a rimanere impressi nella memoria di un ragazzino per lunghi anni e a ritornare prepotentemente in superficie nelle occasioni più impensate. Fin qui i ricordi da ragazzo; di qui in avanti, invece, alcune riflessioni da adulto. Andati via da Macomer, la vicenda sembrava passata nel dimenticatoio, fino a quando da qualche riga nella stampa locale non apprendemmo che presso un tribunale militare venivano sottoposti a processo i responsabili di quell’infame delitto. Apprendemmo, così che la salma di quel poveretto era stata trasportata dentro un sacco di iuta fino a Santa Teresa e lì abbandonata alle correnti dello stretto di Bonifacio. Quasi a completamento dell’antico rito romano della “damnatio memoriae” o era più semplicemente nell’inutile tentativo di far sparire le prove del barbaro omicidio. Le notizie del processo e delle condanne rinfrescarono la memoria e una sorta di risentimento nei confronti dell’esercito che di un eroe inerme aveva perso la memoria. Evidentemente, per le forze armate merita il titolo di Eroe chi muore con le armi in pugno, in combattimento. Chi, invece, affronta la morte semplicemente ubbidendo a un impulso interiore, a un personale impulso morale dettato per di più da una legge non ancora scritta (la Costituzione che ci garantirà libertà dal fascismo e democrazia), può tranquillamente finire tra gli eroi non ricordati neanche nei sussidiari delle scuole elementari. Anni Settanta. 1974, elezioni per il rinnovo del consiglio regionale; 1975, elezioni per il rinnovo dei consigli comunali. Un susseguirsi di riunioni, assemblee di sezione, direttivi, scelta dei candidati, formazione delle liste ecc.. Conclusi gli adempimenti formali era abitudine fermarsi a chiacchierare al bar o davanti a un bicchiere di vino. In una di quelle chiacchiere seppi cosi che la famiglia del colonnello Bechi-Luserna aveva chiesto al Comune di Santa Teresa che gi venisse intitolata una via o una piazza. Secondo un nostro anziano militante, la richiesta non fu accolta perché “nel Consiglio comunale erano ancora tutti fascisti”. Presi la spiegazione come una battuta legata al settarismo ancora molto diffuso tra le forze politiche e non mi preoccupai molto di verificare la veridicità del fatto. Oggi apprendo che esiste un progetto dei primi anni Cinquanta per lavori di sistemazione della via Bechi, ma che non è stato rintracciato nessun atto ufficiale (deliberazione del consiglio o della giunta) per la intitolazione della via: atto che dovrebbe essere obbligatorio. Evidentemente la via Bechi è nata quasi in clandestinità! Perciò ricordo di aver accolto quasi con una sorta di sollievo la notizia, in tempi relativamente recenti, della intitolazione di una caserma, a Macomer, al colonnello Bechi-Luserna. Ma le sorprese, per me, non erano destinate a finire in questo modo così banale! Ho avuto occasione, in questi anni, di incontrare e di avvicinare giovani che hanno svolto servizio militare nella caserma Bechi-Luserna. La prima volta la domanda era davvero senza malizia: “ma vi hanno spiegato chi era questo personaggio?”. Ricevuto il primo diniego, nelle successive occasioni la domanda era sicuramente maliziosa: il risultato è stato davvero deludente: otto volte su dieci la risposta è stata negativa! Che l’esercito sia ancora quello dell’immediato dopoguerra? O che davvero si possa considerare eroe solo chi muore con le armi in pugno? Dai ricordi sbiaditi di un ragazzino curioso alla ricostruzione di un vicenda di guerra assurda e drammatica alla pietà dovuta a un caduto motivato da un forte impulso morale
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