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Quegli immigrati fondatori di Roma... PDF Stampa E-mail
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Giovedì 13 Giugno 2019 19:35

Da Enea a Romolo e Remo, passando per Ascanio, Numitore, Amulio e Rea Silvia – Un crogiolo di diversità fu capace di assurgere ai gradi più alti della civiltà di quei tempi e alla dignità imperiale

di Carlo Patatu

R

oma ha 2.772 anni e li dimostra. Li ha compiuti qualche mese fa, nell’indifferenza pressoché generale. Forse perché il Natale di Roma (21 Aprile), quest’anno, coincideva con la Pasqua. Il che ha distratto non poco l’attenzione da quella ricorrenza, mitica e solitamente celebrata.

Ricordo che, da scolaro e studente, il maestro e i professori non mancavano mai di ricordare quell’evento, da sempre circonfuso da un alone di leggenda. I due gemelli Romolo e Remo affidati alla corrente del Tevere dentro una cesta, fortunatamente impigliatasi in un cespuglio rivierasco, la disponibilità della lupa provvidenziale che li allattò e poi tutto il resto.

Ma da chi provenivano quei gemelli? Chi fuor li maggior sui[1], e cioè quale stirpe li aveva generati?

Ecco che, a questo punto, entrano in scena un po’ di storia e tanta leggenda. Com’è d’obbligo, quando occorre dare consistenza e prestigio alla fondazione di una città che, in seguito, ha potuto fregiarsi di aggettivi quali imperiale, eterna e sacra. Una città che, non a torto, divenne caput mundi. Di quello conosciuto allora, ovviamente.

Partiamo un po’ da lontano. Dalla sconfitta e distruzione di Troia a opera dei Greci, tramandateci magistralmente da Omero coi suoi poemi Iliade e Odissea e poi riprese da Virgilio con l’Eneide. Siamo intorno al 1180 a.C. Tremila e duecento anni fa, all’incirca. Nella circostanza, Enea, eroe massimo figlio di Anchise e della dea Venere, nipote di Priamo re troiano, si caricò il padre sulle spalle e, preso per mano il figlioletto Ascanio, fuggì dalla propria città in fiamme e prese il mare. Vagò non ricordo più per quanto tempo di costa in costa (Tracia, Creta, Epiro, Puglia, Sicilia, Cartagine), finché approdò definitivamente sulle spiagge laziali, dove suo figlio Ascanio-Julo fondò la città di Albalonga.

Ascanio, pertanto, sarebbe il capostipite della dinastia dei re albani, dei quali, per brevità, mi limito a citare il solo Numitore, che fu destituito dal trono e scacciato dal proprio fratello Amulio. Ma costui era ossessionato da una profezia, secondo la quale sarebbe stato a sua volta deposto e ucciso da un discendente del proprio fratello Numitore, che aveva una figlia di nome Rea Silvia. Per allontanare da sé quella minaccia, Amulio costrinse la nipote a diventare vestale, sacerdotessa con l’obbligo di votarsi alla castità.

Ma l’amore, si sa, non conosce ostacoli. Fu così che la giovane e avvenente Rea Silvia gettò alle ortiche il giuramento fatto, rispose ai corteggiamenti del dio Marte e restò incinta. Da qui nacquero, non senza scandalo, i gemelli Romolo e Remo. Il perfido Amulio, ordinò che i neonati fossero uccisi, per liberarsi una volta per tutte dalla paventata profezia. La sorte, invece, volle che il servo incaricato dell’uccisione si comportasse diversamente. Ed eccoci arrivati alla cesta con i due piccoli affidati al Tevere, alla lupa allattatrice e alla fondazione di Roma, con annesso fratricidio.

Il resto è noto. Più che noto.

Quindi la grande Roma fu fondata da immigrati. Di stirpe regale, non c’è che dire. Ma sempre di immigrati si trattava. Di persone che parlavano un’altra lingua, adoravano altri dei, seguivano consuetudini diverse e, cosa non ultima, scappavano da una guerra. Il che non impedì a costoro d’integrarsi con le comunità italiche e latine, di scendere anche in guerra con loro quando le circostanze lo richiesero e, alla fine, fondendosi alle popolazioni locali con matrimoni misti e altre modalità, di crescere, emanciparsi e raggiungere le più alte vette della civiltà. In tutti i campi. Quel crogiolo di diversità divenne un unicum e riuscì ad assurgere addirittura alla dignità imperiale. Roma Caput Mundi, appunto.

Il tempo, sappiamo bene, è sempre galantuomo.



[1] “Chi furono i tuoi antenati?”, chiese Farinata degli Uberti al poeta divino incontrandolo nell’Inferno. Cfr. DANTE, La Divina Commedia, Inferno, canto X, verso 42.

 

 

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