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Conca ‘e oro |
Mercoledì 18 Settembre 2019 16:15 |
Il ricordo affettuoso di mio padre, uomo semplice, di grandi ideali e dalla schiena diritta, ottimo educatore e punto di riferimento par la famiglia, cresciuta in serena semplicità e grande dignità di Orazio Porcu “Conca ‘e oro” era nato nel 1890, famiglia di braccianti agricoli e comunità di bracciantato, non poteva aspirare a grandi traguardi di vita (quelli erano riservati ai rampolli del ceto de sos prinzipales o, al più, a qualche giovane figlio della nascente borghesia). Si portava addosso quel nomignolo Conca ‘e oro, attribuitogli dal maestro delle scuole elementari che lo riteneva capace e meritevole di proseguire negli studi. Dagli anni di scuola si portava appresso, anche, una sorta di rispetto quasi religioso per la lettura e la scrittura; chi era stato capace di imparare a leggere e scrivere, per lui, poteva imparare qualunque altra cosa. Di fronte alle novità, se sentiva dire “ma è difficile” commentava “eih, no est mancu s’alte ‘e iscriere”. Ma non aveva rimpianti per non aver potuto studiare: dotato di buona capacità di riflessione e di grande pazienza cercava di ottenere dalla vita ciò che la vita poteva offrire a persone della sua condizione sociale, senza tuttavia rinunciare a partecipare attivamente alle trasformazioni che si andavano annunciando in quel fine secolo e al principio del XX. Lo troviamo, così, più o meno ventenne, seguace del giovane studente bonorvese Giovanni Antioco Mura, tra i giovani socialisti massimalisti e, allo scoppio della grande guerra, tra gli anti-interventisti. Poi, la Patria chiama e a quel richiamo, per quanto malvolentieri, non si può non obbedire! Molta pazienza e poche parole: aveva bisogno di riflettere molto perché potesse farsi una sua opinione delle cose: te ne rendevi conto quando apriva bocca, che ciò che diceva era sempre frutto di riflessione e di lunghi ripensamenti. Della guerra parlava malvolentieri o, meglio, non ne parla affatto. “Ho sempre fatto, come tutti, quello che mi ordinavano! E sono stato fortunato che non ho preso una pallottola austriaca o non sono stato fatto prigioniero: in un caso sarei ancora al fronte sotto un metro di terra e nell’altro, il re e i suoi generali mi avrebbero considerato, semplicemente, un disertore, con conseguente riduzione, o più spesso, revoca tota -le del sussidio di guerra alle famiglie! Ho detto della pazienza: alterava appena il tono della voce, quando in una discussione tra colleghi, tra amici, in famiglia, qualcuno alludendo allo studio, poteva affermare “eih, si’ndha a faghere cosa meda de cussu bicculu ‘e pabilu”. “Unu bicculu ‘e pabilu m’ha dadu a mandhigare tota sa vida”, argomentava! “Candho, finida sa gherrra, su Re s’ha’ mandhigadu sa promissa de nos paltire sas terras de sos barones”, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole, in cambio propose agli ex combattenti, che sapevano leggere e scrivere, l’opportunità di andare a lavorare in ferrovia. Era iniziata così la sua vita di lavoro e di pellegrinaggi per le cantoniere della rete ferroviaria: “picconare ghiaia sutta sos binarios de su trenu o zappare in logu de terra luzzana, semenende trigu, non b’hada differenzia per’una”. Delle sue origini contadine, però, conservava la cultura materiale e le virtù (lui le chiamava, semplicemente, abitudini di vita): l’attaccamento al lavoro; nei pressi di tutte le cantoniere c’era qualche fazzoletto di terra che si prestava alla coltivazione di grano o di cereali che potevano costituire le provviste per la famiglia, insieme al maiale (al giovane di 16-17 anni esitante se affondare il coltello all’atto della macellazione, non mancava il suo incoraggiamento “non timas a t’imbruttare sas manos de samben, chi non sun sas manos bruttas chi guastan sa conca, es’ sa conca guasta chi imbruttada finzas sas manos”; il culto del risparmio, in questo aiutato dalla moglie, sempre attenta alle necessità della casa; il rispetto della casa, della famiglia sulla quale esercitava una presenza silenziosa ma ben attenta, e per la quale ogni sacrificio era giustificato, le frequenti peregrinazioni da una cantoniera all’altra erano motivate dalla necessità che le cantoniere fossero abbastanza vicine ad un paese che consentisse ai figli la frequenza scolastica; l’affetto e il rispetto della moglie, mai “mutzere mia” sempre “sa padrona ‘e domo”, come era normale nelle famiglie matriarcali. La vita allora, procedeva, come per tutti, scandita dagli orari di lavoro: fino al tramonto il servizio, e dopo il tramonto la coltivazione dei magri fazzoletti di terra lungo i binari, e l’anno segnato dall’alternarsi dei bisogni e delle stagioni: ”finzas a Nadale né fritu e né famine, da- e Nadale in susu fritu e famine piusu”. Le provviste dovevano essere sufficienti fino alla successiva estate. Degli anni passati in trincea gli era rimasta l’intolleranza nei confronti della monarchia, in particolare nei confronti del Re: non riusciva a sopportare l’entrata in guerra, la chiamata alle armi dei ragazzi del ’99, ”arrivavano in trincea che non avevano ancora imparato a farsi la barba, col ’91 in mano e, al primo assalto, ti morivano a fianco prima ancora di aver sparato un colpo”. Ma al Re non era mai riuscito a perdonare l’aver messo l’Italia nelle mani di Mussolini. “Quando vinciamo la guerra”... era la propaganda del Re .”Candho inchimos sa gherra... sa gherra l’ha’ binchida isse, sa terra l’ha’ regalada a sos soldados chi che sun restados in su fronte, pro los suterrare; e isse candho si ch’es fuidu non si ch’est’ andhadu a manos boidas. “Ha nadhu chi cussa fi’ sa siendha ‘e sa Corona e nois maccos, illusos da ‘e minores, cunvintos chi sa siendha ‘e sa corona fimis nois, s’Italia e i sos Italianos”. Quando aveva bisogno di un paragone, di un confronto, di una similitudine, si rivolgeva al mondo del quale aveva ereditato l’imprinting. Così nei confronti della stampa aveva sempre grande rispetto accompagnato da intelligente diffidenza: “su giornale es’ che-i s’ainu, trazada su chi li ponen susu: tandho prima ‘e comporare unu giornale chilca ‘e cumprendhere chie es’ s’ainalzu chi li pone’ s’imbastu”. Il mondo del lavoro era comunque sempre presente nel suo modo di ragionare: così al ragazzino di terza media che gli mostrava stupito fotografie del Colosseo o dei Fori Imperiali e attendeva la manifestazione della sua meraviglia opponeva le sue considerazioni materiali: “ma ti enidi mai de pensare a cantu samben de poberu b’ada sutta cussas pedras?” Alla fine della guerra, dopo vent’anni di stampa di regime, la necessità, quasi la sete di stampa libera, portarono quasi tutti a profittare dell’esplosione dei giornali. “Conca ‘e oro” curiosava tra “L’asino” di Podrecca, “Il merlo giallo”, violentemente anticlericali, “L’uomo qualunque”, ma finiva per tornare alle letture antecedenti il Fascismo: “L’Avanti” e ‘L’Unità”, la rinata “Nuova Sardegna” e su quelle letture andava formando la cultura e il carattere dei figli! La libertà individuale, insieme alla responsabilità nel suo esercizio, dovevano essere, sempre, principi di vita, anche nei rapporti di famiglia. Così, quando un figlio disse che voleva andare in seminario, commentò semplicemente “i ragazzi, a volte si innamorano della divisa dei carabinieri, a volte della sottana dei preti! Quando gli passa, vedrete che torna a casa”. Ma non si oppose. E l’occasione perché il figlio rientrasse a casa si presentò, quando, un anno dopo, “Conca ‘e oro”, radicalmente anticlericale, insieme ad un’altra trentina di persone, fini in carcere perché manifestava in difesa di un prete! Ma questa è storia che coinvolse un intero paese! Nel cinquantenario della vittoria, con legge 18 marzo 1968 venne istituito l’Ordine di Vittorio Veneto: con Decreto di gennaio 1969, esecutivo della legge, a “Conca ‘e oro” fu conferito il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto.” L’onorificenza fu notificata alla famiglia nel mese di marzo 1969, quando, ormai, la vita gli aveva tolto la soddisfazione di poterla rifiutare: cosa che avrebbe sicuramente fatto, tanto gli era ormai estraneo persino il ricordo della guerra che pure lo aveva costretto a quattro anni di trincea: “sa gherra provoca’ dolores e sufferenzias, sas medaglias de oro sun roba pro sos generales e pro chie moridi in battaglia, deo so ancora ‘iu e no so diventadu mancu caporale!”. Ammentu afettuosu e riconnoschente ca “Conca ‘e oro” fit babbu meu e da isse apo imparadu a afrontare sa vida in su bonu e in su malu cun s’ischina eretta e sa faccia pulida. Non timas a difendere su chi pensas senza arroganzia ma sempre detzisu: s’omine, pius s’lngrusciada, pius su culu ammustrada!
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