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Se n’è andato: era ora! |
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L’addio annunciato di Matteo Renzi al PD fa finalmente chiarezza su un rapporto strano dell’ex Presidente del Consiglio col proprio partito, dove non si sentiva più a proprio agio: non era più lui a comandare di Carlo Patatu Matteo Renzi saluta e se ne va. Lascia il PD senza sbattere la porta; anzi, dice, lo fa in forma gioiosa; ma si porta appresso una quarantina fra deputati e senatori. Per ora. Poi si vedrà. Una sorta di separazione consensuale, sottolinea quel buontempone di Rosato. Non so se esistano veramente separazioni consensuali fra coniugi se non come formalità giuridica. Per farla breve, risparmiando così tempo e denaro. Ma le ragioni del distacco restano pur sempre come ferite, talvolta difficili da rimarginare. In occasione della imminente Leopolda, Matteo ufficializzerà la fondazione del proprio movimento: Italia viva o Viva l’Italia. Qualcosa del genere. Ma per tutti sarà il PdR e cioè il Partito di Renzi. Un sogno coltivato da tempo.
E così, in barba a ciò che aveva assicurato all’opinione pubblica, all’ingenuo Zingaretti e all’universo mondo, subito dopo il giuramento di ministri e sottosegretari annuncia che alea iacta est, ossia che il dado è tratto, la decisione irrevocabile è stata presa. Con tempismo perfetto. Machiavelli non avrebbe saputo suggerirgli di meglio. Mettendo così in cascina il fieno che gli consentirà di procedere con calma a organizzare il neonato partito per la prossima consultazione elettorale su base nazionale. Intanto ha già costituito in gruppi politici autonomi i parlamentari che lo seguono in questa nuova avventura; pertanto, da oggi in poi, Conte dovrà vedersela con tre alleati e non più con due. Vero è che Renzi gli ha garantito a voce e scritto ad abundantiam di stare sereno, in quanto i suoi continueranno ad appoggiare il Governo. Ma sappiamo che, in materia di serenità, le rassicurazioni dell’ex sindaco di Firenze valgono quanto il tre di picche. Tant’è che l’ex avvocato del Popolo, ora paladino dell’umanesimo, sereno proprio non è. Ne conosce a fondo la ragione: d’ora in avanti, il destino suo e della compagine governativa che dirige saranno pure nelle mani di Renzi. Che, su questo piano, non è proprio affidabile. Ma questo addio, a mio parere, un merito ce l’ha ed è di avere fatto chiarezza sulla conduzione di un partito, il PD, il cui segretario era sotto scacco e si muoveva con la presenza costante, ingombrante e persino asfissiante del fiorentino. Che non se ne sa stare con le mani in mano e che, per vivere, ha bisogno, come dell’aria che respira, di calcare il proscenio, stando sotto i riflettori. Non è uomo che sa rassegnarsi a seguire indicazioni, progetti e percorsi pensati da altri. Quando non è lui a comandare si sente a disagio. E a disagio era ormai da tempo in casa PD. Inutile negarlo. Il che produceva ricadute di segno negativo sul partito, che di guai ne ha avuti e ne ha già di suoi. Pertanto, bene ha fatto Matteo ad andarsene. Anzi, avrebbe dovuto farlo prima; ma non gli conveniva. Ha scelto, ripeto, il momento giusto, il più conveniente, date le circostanze. Se poi il tempo gli darà ragione è cosa che vedremo più in là. Intanto si è conquistato uno spazio autonomo nella condotta del Governo, dove potrà dire autorevolmente la sua. Sappiamo bene che non si asterrà dal farlo e che lo farà con la determinazione, la spregiudicatezza e l’arroganza che gli cantano. A Renzi bisogna dare atto che è un leader. All’interno del PD non vi è chi possegga le doti di comunicatore che lui ha, né chi possa tenergli testa nel campo dell’innovazione, nella capacità di sparigliare i giochi e d’intraprendere strade nuove guardando al futuro. Ma un leader, è risaputo, deve avere capacità di ascolto che lui non ha e l’umiltà di prendere in considerazione anche le ragioni di chi non è aduso a fargli da zerbino. Per il PD si apre una stagione incerta e di grandi turbolenze che, temo, Zingaretti non sarà all’altezza di gestire adeguatamente. Turbolenze che, inevitabilmente, disturberanno non poco la navigazione di Conte e dei suoi ministri. Probabilmente, saranno la paura delle urne e il terrore di rivedere Salvini in cattedra a indurre a più miti consigli i tre gruppi politici che sostengono Palazzo Chigi. E a prolungare la vita di questo Governo nato più per necessità che per convinzione. Il che, a mio modo di vedere, oltre a essere meschino, è pure deludente.
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