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Ambaradan, la parola che nasce da un genocidio PDF Stampa E-mail
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Domenica 17 Maggio 2020 00:00

Dopo la battaglia di Amba Aradam, vinta contro l’Abissinia nel 1936, Pietro Badoglio, al comando della missione, bombardò di gas le truppe etiopi in rotta: fu un’ecatombe

di Carlo Patatu

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ualche giorno fa, ho pubblicato su queste pagine un articolo del mio amico e vecchio compagno di scuola Orazio Porcu, intitolato I modi di dire hanno sempre un fondamento. Fra l’altro vi si faceva riferimento a un’espressione un tempo molto comune, ma oggi non più: ambaradan.

È successo un ambaradan. Che vuol dire?

La frase rimanda al significato di confusione, impresa complessa, qualcosa di simile a baraonda. E trae origine, come sottolineava il Porcu, da “una delle pagine più sanguinose delle imprese italiane in Africa”, la guerra coloniale contro l’Impero dell’Abissinia (oggi Etiopia) negli anni 1935-1936.

Vediamo come si è svolta la vicenda.

I miei occhi si aprivano al mondo, il 25 Gennaio 1936, quando quella guerra, in corso già da alcuni mesi, ebbe a registrare un episodio vergognoso per la nostra storia militare. Nella mattinata del 10 febbraio, il maresciallo Badoglio, al comando della missione in Abissinia, lanciò con successo l’attacco nei pressi del massiccio montuoso Amba Aradam. Disponeva di oltre centoventimila soldati, fra regolari e ascari,[1] tutti convenientemente equipaggiati. Le perdite di parte italiana, si legge nel comunicato ufficiale, ammontarono, fra morti e feriti, all’incirca a 800 persone, a fronte dei ventimila abissini caduti.

Nonostante il buon risultato ottenuto, Badoglio non volle lasciare scampo agli etiopi ormai allo sbando. Per quattro giorni consecutivi ordinò all’aviazione italiana di lanciare bombe d’iprite e altri gas molto tossici sui nemici in rotta, senza riguardo nemmeno per le popolazioni civili delle tribù locali, che furono massacrate senza scampo. Da qui la baraonda comprensibile e lo stato di confusione che ne seguì.

La guerra si concluse qualche mese più tardi, il 5 Maggio, con la vittoria italiana. Pertanto, il giorno 9 successivo, affacciatosi al balcone di piazza Venezia, Mussolini annunciò tronfio al popolo delirante e al mondo: l’Italia ha finalmente il suo Impero! Salutandone la riapparizione, dopo quindici secoli, sui colli fatali di Roma.

Poi sappiamo com’è andata a finire: la seconda guerra mondiale spazzò via impietosamente sia la monarchia, sia l’impero. Il re e imperatore Vittorio Emanuele III, che non era piccolo soltanto di statura, lasciò mestamente il Quirinale e prese la via dell’esilio in Egitto, dove concluse ingloriosamente i propri giorni.

Ecco perché, da piccolo, ho sentito più volte pronunciare la frase “è successo un ambaradan”, per dire di un grande disordine, disorganizzazione, caos. Ma senza conoscerne l’origine. Oggi quell’espressione non è più di moda. Col passare degli anni, la polvere fitta dell’oblio ha dato l’ostracismo a una parola nata da un genocidio.

L’Italia ha avuto modo di scusarsi col popolo etiope, ma soltanto una sessantina di anni dopo, con le visita a del presidente Scalfaro ad Addis Abeba nel 1997 e la restituzione della stele di Haxum, già depredata durante quella guerra coloniale e collocata a Roma in piazza di Porta Capena.



[1] All’epoca della guerra contro l’Abissinia, erano eritrei dell’Africa Orientale Italiana inquadrati nelle nostre truppe coloniali.

 

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