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Andamus a iscultare - 2a parte |
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Venerdì 04 Dicembre 2020 10:43 | |
di Carlo Patatu
n quelle serate interminabili, più spesso s’ingannava il tempo chiacchierando di tutto un po'. Gli argomenti spaziavano dai fatti del giorno al pettegolezzo di strada. Qualche maldicenza su questa o quella, su questo o quello tenevano banco. Anche a lungo. Dipendeva dalla circostanza. Riscuotevano attenzione e interesse particolari le rivisitazioni di vicende legate a fatti di sangue accaduti in tempi recenti e remoti. Come pure le storie terrificanti di fantasmi che si credeva comparissero un po’ ovunque, a mezzanotte e dintorni, per poi dileguarsi alle prime luci del giorno. Misteriosamente come s’erano materializzati. Si trattava, mi sentivo raccontare, di anime in pena che, errando all’infinito, senza pace e per ogni dove, diffondevano tutt’intorno alti lai per il castigo tremendo ed eterno cui erano state dannate nell’aldilà. Roba da fare accapponare la pelle. Figurarsi le ansie e le paure patite da noi bambini nell’ascoltare quel genere di favole. Mi pare di avvertire ancora adesso i brividi che mi solcavano la schiena nel sentire quelle storie terrificanti. Altro che Biancaneve, i sette nani e la strega cattiva!
Tìa Maria Pedrùzza era una simpatica vecchietta che, tenendo sul grembo una chiave enorme che apriva e chiudeva il vecchio uscio di casa sua, era ciarliera e chiacchierava di buon grado. Conosceva un’infinità di fatti e fatterelli dei tempi andati. Noi l’ascoltavamo a bocca aperta, curiosi, divertiti o spaventati, a seconda dell’argomento. Ma la donna era immancabilmente ben disposta a lasciarsi vincere dai primi assalti del sonno incombente. E così, fra una chiacchiera e l’altra, finiva col reclinare il capo, addormentandosi sulla sedia e perdendo così larga parte della conversazione. Di tanto in tanto, anche per effetto di un qualche nostro scherzo irriguardoso (il bersaglio preferito era la chiave gigantesca, che tentavamo inutilmente di sottrarle per nasconderla da qualche parte), si svegliava di soprassalto e, comprensibilmente disorientata, si appigliava alla prima parola che le riusciva di captare. Il che le procurava certo smarrimento che contagiava subito gli astanti. Non mancando di destare ilarità fra noi piccoli. Scoppiavamo immancabilmente in risate fragorose e irriguardose, gelate all’istante dall’intervento censorio di mia madre. Ci fulminava col suo sguardo severo. Che non ammetteva repliche. Sia lei che mio padre nutrivano per quella vecchietta affetto filiale e grande rispetto. Come noi, del resto. Ma eravamo bambini e non avevamo la più pallida idea di che volesse dire portare sulla gobba il fardello degli anni. Con tutto quel che ne segue.
Si viveva in regime di grande austerità. Che per noi, invece, era la normalità assoluta. Niente schiume, lavande o profumi di sorta. A bagno ultimato, l’unico lusso accordato era una bella, sana e odorosa spolverata di borotalco. Ragioni anagrafiche mi concedevano il privilegio di essere l’ultimo a fare il bagno. Poiché l’operazione andava avanti per qualche ora (a entrare a turno nella bagnarola eravamo in sei), non restava altro tempo da dedicare alle conversazioni usuali. Per cui, dopo un’asciugatura frettolosa, tutti a nanna. Ancorché recalcitranti.
2 - continua
Cfr.: CARLO PATATU, Il paese che non c'è più, ed. Grafiche Essegi, Perfugas 2016, pagg. 143-153 [i] Maria Pietruccia. Cfr. CARLO PATATU, L’assalto alla carrozza postale in Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007. |
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Ultimo aggiornamento Sabato 05 Dicembre 2020 11:40 |