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Su Duttore – 3a parte |
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Sabato 26 Dicembre 2020 18:25 | |
di Carlo Patatu
ntorno al 1945, a guerra quasi finita, il dottor Grixoni fu collocato a riposo. Ma continuò a vivere in paese, nel bel palazzo di famiglia, insieme al fratello canonico e alla sorella Cicìna. Libero dagli impegni professionali della condotta medica e coadiuvato dal fedele mezzadro Giuseppe Truddaju senior, si dedicò con passione e competenza alla cura dell'oliveto e vigneto di Fràssos, alle porte del paese. Ma anche degl'infiniti cespugli di splendide rose multicolori, di gigli dal profumo conturbante e d'una miriade di piante ornamentali. Che facevano ala al sentiero che, dal cancello di don Antoni[i], conduceva a valle fino alla fontana artistica, posta al centro del podere e attigua a un gazebo intrecciato con piante rampicanti sempreverdi, la cui fioritura lo ricopriva per gran parte dell’anno. Oggi quel roseto e quei cespugli fioriti non ci sono più; e nemmeno la bella fontana. Gli eredi l’hanno smontata scriteriatamente per trasferirla in una loro residenza in agro di Sassari. Dove, per quanto ne so, non l’hanno nemmeno ricostruita.
Per cultura, oltre che per tradizione familiare, l’uomo non era quel che può dirsi un liberal. Attaccato caparbiamente a un mondo arcaico che privilegiava i pochi possidenti in danno dei più che non avevano beni al sole, non si rendeva conto dell’incombere di tempi nuovi che, grazie anche alla guerra, avevano ormai travolto quella stagione dal sapore tardo medievale, peraltro durata fin troppo a lungo a Chiaramonti. Continuava a illudersi che ogni cosa dovesse e potesse rimanere immutata.
Gli anni del crepuscolo li trascorse a Sassari, forzatamente lontano dalle persone che aveva frequentato una vita, ormai completamente cieco, ospite del figlio e assistito dalla fedele domestica Mariangela. In paese tornò soltanto da morto, per essere sepolto nella tomba di famiglia. Aveva quasi novant’anni. Su Duttorèddu usava modi indubbiamente rudi, non sempre simpatici. A volte persino improntati all’arroganza. Era uno che non la mandava a dire. Anche quando un minimo di tatto gli avrebbe dovuto suggerire prudenza. Ma era uno di noi. Di noi sapeva tutto. Proprio tutto. Avevamo imparato a sopportarci a vicenda. E, per quanto lo riguardava, senza rancori di sorta. Da persona educata qual era, mostrava riconoscenza ed esprimeva gratitudine nei confronti di chi gli usava attenzione, garbo e rispetto. I primi pani che uscivano dal forno, mia madre li mandava ancora caldi a casa sua, oltre che al parroco compàre[iii] Dedola. E lui non mancava di apprezzare. Puntualmente ricambiava la cortesia con le primizie del frutteto-vigneto di Fràssos: ciliegie carrafàle[iv], uva da tavola, vino, olio. Anche se, al di là del bel gesto di mia madre, il dono di un paio di spianate appena sfornate, pur in tempi difficili, a una famiglia agiata come la sua risultava del tutto ininfluente. Ma il gesto, quello si, gli tornava gradito. Ecco perché gli si potevano perdonare (e gli furono perdonati) certa albagia (peraltro ben governata), il carattere burbero, qualche eccesso di troppo e più d'una diagnosi sballata.
3 – continua
Cfr.: CARLO PATATU, Il paese che non c’è più, ed. EsseGi, Perfugas, pagg. 93-111. |
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Ultimo aggiornamento Sabato 26 Dicembre 2020 18:51 |