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Chi sorveglia i custodi? PDF Stampa E-mail
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Venerdì 24 Luglio 2020 16:13

Lo scandalo della caserma dei carabinieri di Piacenza ripropone un dilemma antico: chi deve vigilare sulle catene di comando che governano le istituzioni pubbliche?

di Carlo Patatu

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ed quis custodiet ipsos custodes? Ma chi vigilerà sugli stessi custodi? La sottolineatura la leggiamo nella sesta Satira di Decimo Giunio Giovenale, poeta e retore latino vissuto a cavallo fra il I e il II secolo d.C.

In realtà, il poeta si rivolgeva a un marito geloso, dicendogli: «Spranga pure la porta di casa e impediscile di uscire; ma chi vigilerà sui sorveglianti? La moglie è astuta e comincerà da quelli». Tuttavia la raccomandazione, pur vecchia di quasi duemila anni, ben si attaglia a quanto è accaduto presso una caserma dei Carabinieri di Piacenza, dove i militari in servizio si comportavano come la volpe a guardia del pollaio.

La serenità del mio soggiorno maddalenino è turbata da quanto riportano, in questi giorni, giornali e TV sugli episodi raccapriccianti che vedono protagonisti uomini della Benemerita. I quali, invece che essere usi obbedire tacendo e tacendo morir, come recita il motto dell’Arma, praticavano l’abitudine a coprir tacendo le loro malefatte. Che, a giudicare da quanto è emerso finora, sarebbero tante e di gravità inaudita.

Ritenendosi al sicuro dietro lo scudo di una istituzione prestigiosa con oltre duecento anni di storia[1] e dentro le mura robuste di una palazzina dallo stile pretenzioso, otto carabinieri avrebbero collezionato una lunga serie di reati che sono ancor più gravi se commessi da chi è investito del dovere di prevenirli ed eventualmente reprimerli. Si tratterebbe, infatti, di minacce e violenze fisiche sugli arrestati, segnatamente se extracomunitari o tossici; di appropriazione indebita di beni sequestrati, stupefacenti compresi, e di associazione a delinquere per lo spaccio di droghe.

Tutto ciò indossando una divisa che abbiamo imparato ad amare e rispettare per i servizi che quotidianamente ci rende e nel ricordo dei tanti eroi che, fregiandosi degli alamari, si sono immolati per il bene della comunità. Penso a Salvo d’Acquisto, al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e a tanti altri che hanno speso la vita per cause nobili; ma anche al mio zio materno Giommaria Pulina, carabiniere, rientrato fortunosamente in Italia dalla campagna di Russia giusto in tempo per farsi ammazzare dai tedeschi nel 1945. A 36 anni e un paio di mesi prima della fine della guerra.

Ebbene, i militi piacentini avrebbero messo in piedi, dentro la caserma, un’organizzazione dal vago sapore mafioso e si sarebbero arricchiti in modo indegno. In dispetto ai principi cui avevano giurato fedeltà e nell’indifferenza verso i tanti colleghi che, usi a obbedir tacendo, continuano a farsi onore quotidianamente.

Come da copione, le alte gerarchie dell’Arma hanno manifestato sdegno, stupore e condanna, auspicando che i colpevoli siano puniti come meritano. Ma noi, persone comuni, qualche domanda ce la facciamo. Anzi, ne facciamo più d’una. È possibile che otto carabinieri di una sola stazione, in una città nemmeno grande, sequestrino e spaccino doga, sottopongano a sevizie i poveri diavoli che arrestano, tengano per il collo chi non gli sta simpatico e realizzino guadagni milionari senza che nessuno dei colleghi e dei capi sovraordinati se ne accorga? È possibile che un appuntato viva in una villa lussuosa con piscina e possegga una scuderia di una dozzina di autovetture lussuose e poco meno di una ventina di motociclette di pregio e cilindrata notevoli senza destare sospetti? È possibile che quei militi, senza che qualcuno abbia qualcosa da ridire, siano giunti a un tale punto d’impudenza da farsi fotografare agitando festosi mazzette di banconote e menino vanto persino con i figli delle violenze commesse in danno di chi è arrestato?

No, non è possibile: mi rifiuto di crederlo.

So bene, per averne fatto esperienza gestendo il personale da sindaco del mio paese e da dirigente scolastico, che un capo, se attento, conosce tutto o quasi dei dipendenti. Soprattutto in presenza di stili di vita che non collimano col reddito da lavoro e con quello eventualmente ereditato.

Siamo in presenza delle solite mele marce? Ma quando mai!

Mi dà da pensare che fatti come questi di Piacenza, come pure della Caserma Diaz di Genova, di Stefano Cucchi, del carabiniere Cerciello e dei militi di Firenze accusati di violenza sessuale su due turiste straniere non sono stati scoperti e denunciati dalla catena di comando dell’Arma, ma da altri; oppure da qualche carabiniere isolato, entrato in crisi dopo avere assistito in caserma a scene che lo avevano scosso profondamente.

Anche nella Benemerita, così come fra i politici, vige certa autoreferenzialità che rende difficoltoso a chi non fa parte della famiglia mettere il naso in ciò che vi accade. Insomma, se la suonano e se la ballano da soli. Se i comandi non si accorgono di niente, i casi sono due: o sono inadeguati o corresponsabili. Da qui non si scappa, tertium non datur[2].

È evidente che l’acquiescenza, se non proprio la connivenza dei comandi sovraordinati conferisce a chi delinque in divisa una libertà immensa, pari alla certezza di farla franca. In breve: i superiori premono perché si facciano più arresti? Ebbene, dicono i subordinati, noi vi accontentiamo; ma voi non storcete il naso se i nostri comportamenti non sono ortodossi.

Ciò preoccupa non poco. Entrando in una caserma dei carabinieri, da libero cittadino o da indiziato o imputato poco importa, devo, in ogni caso, esigere l'osservanza dei diritti costituzionali che garantiscono alla mia persona libertà, dignità e rispetto. Se ciò non accadesse, saremmo tornati ai tempi delle caverne.

Ecco perché opinione pubblica, stampa, politici e gente in divisa deve agitare il problema e dire a gran voce che tali porcherie non devono avere diritto di cittadinanza all’interno delle caserme. Tenendo a mente il monito rivolto a Dante dal nonno Cacciaguida nel 17° canto del Paradiso: questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote.

 



[1] L’Arma deiCarabinieri è stata fondata a Torino il 13 Luglio 1814.

[2] Una terza ipotesi non esiste.

 

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