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S'Abba Santa, ovvero la benedizione delle case |
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Scritto da Carlo Patatu |
Giovedì 08 Aprile 2010 11:03 |
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Per chi, come me, fece l'esperienza del chierichetto, assistere alla funzione di un matrimonio religioso voleva dire anche prendere parte a su cumbidu (il ricevimento). Che consisteva, in genere, in alcune passate di dolci e bevande.
Dopo la cerimonia, gli invitati si riunivano in casa della sposa, nella stanza buona; di solito la camera da letto padronale. Qui ragazze col grembiulino bianco sfilavano davanti agli ospiti reggendo con le mani vassoi enormi, per offrire quanto di meglio era stato approntato per la circostanza: amaretti con un bicchierino di rosolio casereccio, gattò (mandorle, zucchero e miele) accompagnato dal marsala, mendulinos (mandorle amalgamate con bianco d'uovo montato con zucchero) e vino bianco. Per chiudere, l'immancabile caffé coi biscotti.
Il tutto era predisposto in famiglia. Ricorrere alle pasticcerie, a quel tempo, era un privilegio riservato a chi viveva in città. Di pranzi in ristorante neanche a parlarne. La preparazione del rinfresco avveniva in ambito familiare o giù di lì. Ora mi rendo conto che, invece, i privilegiati eravamo proprio noi, gente di paese, e non i cittadini: avevamo (e in parte abbiamo ancora) l'opportunità di gustare piatti tipici e dolci genuini, straordinari per varietà e sapore.
Ma il sacerdote officiante, e di conseguenza anche i chierichetti, partecipavano a su cumbidu soltanto se gli sposi si erano presentati in chiesa ‘senza peccato’; e cioè se il fidanzamento non si era trasformato in convivenza (come ora accade sempre più di frequente) e se la sposa non mostrava i segni evidenti di una maternità incipiente, a rendere testimonianza della castità perduta per sempre.
In quei casi, la Chiesa benediva ugualmente le nozze; ma si negava ai festeggiamenti. Non solo. Estrometteva la coppia dal presbiterio, disponendo che i due promessi sposi s'inginocchiassero sul nudo marmo, al di fuori delle balaustre, dove venivano approntate due sedie impagliate in luogo dei consueti inginocchiatoi rivestiti di velluto rosso e corredati di comodi cuscini imbottiti di lana. Ovviamente collocati all'interno del presbiterio. La cerimonia, per non destare ulteriore scandalo, veniva celebrata di buon mattino. Insomma, in chiesa i due giovani parevano messi in castigo.
Il numero degli invitati era ridotto allo stretto indispensabile: familiari e testimoni. Tant'è che, nei miei ricordi d'infanzia, ho ancora stampata nella mente l'espressione di disagio dipinta nei volti di quegli sposi peccatori e dei rispettivi genitori. Come pure ricordo bene l'atteggiamento del sacerdote officiante, che si sentiva in dovere di manifestare in pubblico la propria riprovazione; nonostante che, per dovere, in confessione avesse già assolto quei due dal peccato grave di omessa resistenza alle tentazioni della carne. In breve, più che a un matrimonio, pareva di assistere a un funerale. O quasi.
Durante le cerimonie della settimana santa, la liturgia prevedeva pure il rinnovo dell'olio per il battesimo e per l'estrema unzione, oltre che dell'acqua benedetta del fonte battesimale e delle due pile poste accanto alla bussola d'ingresso nella chiesa parrocchiale. La stessa acqua che, nella settimana successiva alla Pasqua, veniva portata in tutte le case, quale messaggio di buon augurio, a conferma della benevolenza divina.
La cerimonia della benedizione delle case si svolgeva solitamente nel primo pomeriggio. Il rintocco festoso delle campane annunciava che il prete era uscito di chiesa, accompagnato da una schiera festante di chierichetti in sottana nera e cotta bianca, con tanto di pizzo a ornarne le maniche e la base. La larghezza del pizzo e la ricchezza del ricamo la dicevano lunga sul rango che ciascun chierichetto ricopriva all'interno del gruppo. In teoria, essi erano tutti uguali agli occhi del parroco. Ma c'era chi lo era di più. Per anzianità di servizio e di età; o perché più bravo nell'assistere il celebrante di turno; oppure perché, oltre a essere affidabile, risultava anche simpatico. Tutte cose che, ovviamente, non mancavano di provocare comprensibili gelosie, situazioni antipatiche e qualche controversia fra ragazzi. Al punto che, talvolta, dovevano intervenire persino i genitori.
Padrino Dedola (dott. Pietro Dedola fu parroco di Chiaramonti dal 1934 al 1951), consapevole dell'importanza che i suoi parrocchiani attribuivano a quella sua visita annuale, ci si preparava con cura. La cotta, sempre fresca di bucato e portata con studiata eleganza, ricopriva per tre quarti la sottana nera ugualmente impeccabile. Prima di avviarsi per le strade del paese, poggiava sulle spalle la stola di seta bianca ornata da fregi e croci ricamati col filo dorato; sul capo la berrettina nera a tricorno col pon pon al centro.
All'inizio del giro, il secchio conteneva soltanto l'acqua santa; ma, strada facendo, si riempiva di uova, che le padrone di casa si premuravano di regalare al prete. In segno di riconoscenza per avere visitato, onorandole e benedicendole, le loro abitazioni. Quelle uova rituali, rigorosamente fresche di giornata, dovevano essere donate in numero pari. Le persone più generose arrivavano a regalarne anche una mezza dozzina, aggiungendo talvolta anche un'offerta in danaro, che il parroco provvedeva a infilare in una tasca della sottana nera.
I più, di uova ne offrivano un paio, accompagnandole con espressioni augurali e di sentita riconoscenza. Altri ci congedavano con un grazie e basta. Vi era pure chi regalava qualcosa ai chierichetti. Non soldi, per carità! Potevano prendere cattive abitudini, quei bambini. Ma dolci si: pabassinos, cozzulos, copulettas e persino qualche formaggella. Quelle donne depositavano le uova dentro il secchio mettendole a bagno; quindi vi attingevano un po' di acqua benedetta. Quanta ne bastava per rifornire le acquasantiere domestiche.
Diversamente da oggi, il prete non aveva l'abitudine di anticipare ai fedeli il calendario e lo stradario che avrebbe seguito per effettuare le visite. Pertanto quelle brave massaie che erano le nostre madri dovevano confidare nel passaparola, per avere informazioni precise sulla direzione presa dal prete e dai suoi assistenti all'uscita dalla chiesa. Quando ne avevano avuto notizia certa, esse (di solito erano solo le donne a occuparsene in famiglia) restavano in paziente attesa standosene sull'uscio. Non era di buon gusto costringere il parroco a bussare. La porta doveva restare spalancata.
“Pax huic domui et omnibus habitantibus in ea” (pace a quest’abitazione e a chi vi abita). Con questa espressione augurale e con l'aspersorio in mano, il prete entrava nella casa e, aspergendo abbondantemente l'acqua benedetta a destra e a manca, faceva il giro delle camere, che la padrona di casa aveva provveduto a riordinare a dovere, lasciandone poi le porte spalancate. Conclusa la benedizione, il sacerdote si avviava deciso verso l'uscita, ben sapendo che, prima di andar via, sarebbe stato fermato per i convenevoli di rito e per la consegna dell'offerta; e cioè delle uova fresche, da immergere nel secchio di lamiera zincata contenente l'acqua santa. Dopo il consueto scambio di saluti e auguri, il prete e il codazzo dei chierichetti si avviava verso un nuovo indirizzo. Solitamente una porta accanto o quella di fronte.
Ma s'abba santa non arrivava in tutte le case. Taluni, per ragioni ideologiche evidentemente, non gradivano le visite del parroco. E questi, che conosceva bene le proprie pecorelle, faceva a meno di presentarsi in quelle case (poche), per evitare situazioni incresciose e rifiuti imbarazzanti. Da bambino non comprendevo il motivo di quelle visite mancate. Non riuscivo a spiegarmi perché, qua e là, talune case venissero opportunamente dribblate da quel sacerdote, solitamente scrupoloso e che di rado veniva meno ai propri doveri. Ma accettavo il fatto così come ci si presentava. Se padrino Dedola aveva deciso in quel modo, così doveva essere. Punto.
Ma vi erano anche altre porte, davanti alle quali, pur trovandole regolarmente aperte, pronte a ricevere la visita, il prete tirava dritto e senza fare il benché minimo cenno di fermarsi. Alle persone che stavano dietro quelle porte la benedizione era negata d'ufficio, perché ‘vivevano nel peccato’. Si, nel peccato. Mortale, per giunta. Cosa mai poteva avere commesso, quella brava gente, da meritarsi un rifiuto plateale del saluto beneaugurante e della benedizione pasquale? Cose che, invece, la stessa Chiesa non si peritava di negare agli assassini e ai ladri notori. Che in paese non mancavano e che tutti conoscevamo. Parroco compreso.
Semplicemente, in quelle case vivevano coppie che oggi si direbbero di fatto. Coniugi che, per motivi loro o per necessità, avevano scelto di non chiedere al prete di santificarne l'unione. In taluni casi, per decidere di mettersi insieme, costoro non avevano voluto scomodare nemmeno il sindaco. Avevano fatto tutto da soli. Ma il sindaco, a differenza del prete, non mostrava risentimenti di sorta; né gli passava per la mente di metterle alla gogna, quelle coppie. Alle quali s'imputava il reato grave di avere operato scelte che ad altri erano apparse discutibili, se non proprio esecrabili. I chierichetti, che conoscevano le idee del parroco su quella materia, mai si azzardarono a chiedere spiegazioni sul perché e sul per come di quel rifiuto. Che, inevitabilmente, umiliava chi era costretto a subirlo pubblicamente.
Devo aggiungere che a noi bambini piaceva molto ciucciare le uova fresche. Fatti due buchetti sul guscio in corrispondenza dei poli, si portava l'uovo alla bocca e se ne succhiava il contenuto. Il tuorlo, soprattutto, lasciava in bocca un sapore molto gradevole. E poi bere uova fresche (lo ripeteva spesso il dottor Grixoni, medico condotto) era una specie di salvacondotto per mantenersi in buona salute. Lo raccomandava sempre ai ragazzi, per favorirne la crescita armonica. Specie se gracili e macilenti. Ma, al di là di ogni considerazione inerente alla dietetica, restava il fatto che ciucciare le uova era un piacere cui non si poteva dire di no, quando se ne presentava l'occasione. Ecco perché quel secchio strapieno era pur sempre una tentazione per i chierichetti. Erano proprio tante e invitanti, quelle uova.
A furia di partecipare alle funzioni religiose in tutti i giorni di tutte le settimane di tutti i mesi dell'anno, noi chierichetti avevamo finito col prenderci qualche confidenza con nostro Signore. Ci pareva di essere entrati quasi in intimità con Gesù e coi santi. Un esempio: pur essendo d'obbligo fare la genuflessione ogni qual volta passavamo davanti al tabernacolo che custodiva le ostie consacrate, ci concedevamo qualche licenza, di tanto in tanto. E tiravamo diritti. Specie quando non c'era nessuno a controllare i nostri movimenti. E a sgridarci, eventualmente.
Trovandoci soli in sacrestia, non esitavamo a mettere mano al contenitore delle ostie, preparate con cura dalle suore e pronte per essere consacrate durante la messa. Trovavamo che avevano un buon sapore, quelle ostie; quasi si scioglievano in bocca. Ci piaceva anche sorseggiare il vino bianco (da messa, si diceva) dalle ampolline di cristallo che il sacerdote utilizzava durante la celebrazione del rito. Per tacere degli scherzi insolenti che architettavamo ai danni delle vecchiette, quando si accostavano compunte alla balaustra per ricevere la comunione.
Eppure l'idea d'immergere la mano nel secchio di lamiera zincata e impadronirmi anche di una sola delle tante uova che i fedeli regalavano al parroco non mi era mai passata per la testa. Al contrario di compare Giovannino (mio caro amico d’infanzia), che smaniava dal desiderio di trasgredire i precetti del vecchio prete. E siccome il mio amico ne sapeva una più del diavolo, venne il giorno in cui si lasciò vincere dalla tentazione. Non senza provare ansia e, per di più, con l'angoscia provocata da un forte batticuore.
Eravamo soli, in sagrestia. Proviamo? Proviamo. Incoraggiato dal mio assenso e senza più esitare, affondò la mano nel secchio. Con fare deciso tirò fuori due uova. Volsi d'istinto lo sguardo verso la sua mano ‘sacrilega’. Con mia grande sorpresa (lui sorpreso lo era un po' meno), la temuta ira divina non si era materializzata. La mano non si era siccada. Confortati a sufficienza, scoppiammo entrambi in una risata liberatoria e ciucciammo felici un uovo a testa. Cosa che facemmo più volte anche in seguito. Ovviamente.
Cfr. Carlo Patatu, Scuola Chiesa e fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 119-126
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Ultimo aggiornamento Giovedì 08 Aprile 2010 11:24 |
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Mandaci pure le foto, che, se vorrai, pubblicheremo. Anche per individuare i chierichetti di quella stagione. I quali, ora, sono certamente padri di famiglia. Sarà una sorpresa gradita anche per loro. Saluti cordiali. (c.p.)