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Giovedì 16 Settembre 2010 23:37

di Salvatore Patatu

Conobbi Gigi Carta quand'ero sindaco, quasi alla fine del mio mandato. Era venuto in ufficio insieme a Gianni Piga, figlio di chiaramontesi lontani, scomparso, purtroppo, molto giovane. In quell'occasione promise e fece ottenere un contributo per l'arredamento della palestra e un altro per l'acquisto dell'ambulanza della Croce Azzurra.

 

Sono ricordi piuttosto recenti, in quanto, quando Gigi partì per la guerra, io ero piccolissimo. Però ricordo molto bene la matraca che i fratelli Carta fecero a Carlo, anche perché, quando mio fratello partì per andare a studiare, la ereditai io. Contrariamente a quanto ricorda lui, non era una stupenda matraca.

I fratelli Carta la confezionarono a due ferri, con legno grosso e un po' troppo "pregiato"; per cui il suono risultava cupo e debole; non ìnnidu e penetrante come quello delle matracas fatte dalle sottili tavole di casceta. Non a caso, la miglior matraca del paese era quella di Aldo Fumera, a sei ferri, realizzata da tiu Pallinu, con le tavole delle cassette usate per confezionare le spedizioni del formaggio.

La matraca di Carlo, però, era personalizzata. C'era scritto il suo nome in modo indelebile, in quanto scolpito a scalpello e ripassato con una matita copiativa, in linea verticale, non so se da Carlo o dai fabbricanti. Questa scritta indelebile aveva impedito la correzione di un grave errore nella trascrizione del cognome. C'era scritto, infatti, Patatatu Carlo. Ritrovandola, ora, avrebbe non solo valore affettivo, ma anche intrinseco, in quanto oggetto da collezione come il Gronchi rosa o, quantomeno, le famose monete da cinquecento lire con le bandierine controvento.

Di Gigi ho, comunque, molti e precisi ricordi, perché, successivamente, lo incontrai a Torino numerosissime volte.

Nel 1985 ricoverai mio figlio Paolo al CTO per un'operazione chirurgica alla mano, a seguito di un'ustione. Si trattava di un intervento di chirurgia plastica, per cui, non essendo urgente, i medici lo rinviavano da un giorno all'altro, privilegiando e dando la precedenza ad altri interventi ritenuti più importanti. Tutti i giorni mi promettevano che l'avrebbero operato l'indomani, ma passarono dieci giorni ed io ero ancora lì, ricoverato insieme a mio figlio (se il bambino aveva meno di dieci anni ricoveravano anche un genitore), perdendo tempo e senza cavarne piedi. Tra l'altro, stavano per scadere i giorni di congedo da scuola e sarei dovuto rientrare al lavoro.

Presi il coraggio a due mani (non avevo ancora molta confidenza con lui) e telefonai a Gigi, spiegandogli il mio problema. Mi sgridò con forza, dicendomi che avrei dovuto chiamarlo il giorno del mio arrivo. Comunque, mi diede appuntamento nel suo ufficio della Findata Leasing, (2.000 dipendenti) in via Ghisola, per il giorno dopo alle nove in punto.

Mi muovevo coi mezzi pubblici, per cui arrivai all'appuntamento con cinque minuti di ritardo e me lo fece notare, dicendomi che il signore seduto davanti alla sua scrivania era il presidente dell'USL di Torino e non avrei dovuto farlo aspettare. Questo signore mi chiese il nome di mio figlio e il reparto in cui era ricoverato; quindi, senza aggiungere altro, telefonò al centralino e si fece passare il primario prof. Magliacani.

Gli chiese notizie sul perché il piccolo sardo dovesse aspettare tanto per un piccolissimo intervento. Ascoltò le delucidazioni del primario, che io non sentii, e, alla fine, aggiunse con un tono di voce gentile, ma perentorio, di chi è abituato a comandare: "Questo bambino è mio nipote e deve essere operato domani". Probabilmente quegli rispose in modo evasivo e lui prontamente aggiunse: "Ma io non le ho chiesto se può operarlo, le ho detto che deve operarlo" e, così dicendo, chiuse la conversazione salutandolo con un sorriso. Poi, rivolgendosi a me: "Lei vada in reparto e faccia finta di niente". E così feci.

L'indomani il bambino fu puntualmente operato. Ma Gigi non si limitò a questo, s'interessò ulteriormente, senza che io gli chiedessi niente, per farmi ottenere dall'ospedale altre piccole attenzioni di cui si ha bisogno in quei frangenti non certamente piacevoli.

L'anno successivo fui nominato commissario di Lingua e letteratura francese agli esami di maturità nell'Istituto "Offidani" di Torino e, il giorno stesso del mio arrivo, gli telefonai. Tutti i sabato, finito il lavoro, mandava la macchina blu (un macchinone) con autista per prelevarmi; passavamo a casa sua e partivamo (con la sua macchina, in quanto lasciava libero l'autista) in Val D'Aosta, dove aveva una villa al confine con la Francia. Il lunedì mattina mi faceva riportare a scuola. Una collega, commissario di amministrazione, che aveva assistito un paio di volte alla scena, mi disse: "Ma, si può sapere chi sei, che viaggi con macchina blu e autista?".

"Non ci pensare, meglio che tu non lo sappia", le risposi non senza ostentare un atteggiamento misterioso. Raccontai la scena a Gigi e lui rideva divertito, pensando alla mia collega che era convinta di aver fatto gli esami con un personaggio tanto misterioso, quanto importante.

La domenica mattina, in Val D'aosta, andavamo a pescare in un ruscello. Io gli raccontavo le vicende chiaramontesi, affabulate alla mia maniera e lui rideva di gusto; a volte, dal troppo ridere, gli venivano anche le lacrime.

Un giorno propose a me e a suo cognato di andare a pescare da soli in un laghetto, a una ventina di chilometri da casa sua, dicendoci: "Noi apparecchiamo la tavola e vi aspettiamo; non tornate se non prendete il tanto di pesci necessario per il pranzo. Aveva saputo dal suo autista, pescatore sportivo di livello nazionale, che in quel laghetto non c'era più neanche l'ombra di un pesce. Da due anni la Regione prometteva di attuare un progetto di ripopolamento, ma fino ad allora non se ne fece niente.

Noi, naturalmente, abbiamo abboccato più dei pesci che lì non c'erano e siamo andati pieni di fiducia e di speranza. Dopo un paio d'ore di inutile e noiosa, quanto inutile pescata, pensando alle prese in giro che ci avrebbero riservato rientrando a mani vuote, passammo in un allevamento di pesci, gestito, tra l'altro, da una famiglia di Benetutti, e comprammo otto bellissime trote.

Anche Gigi, ben sapendo che saremmo tornati a mani vuote, si era premunito e aveva fatto comprare i pesci da tirare fuori al momento del nostro arrivo, per completare meglio la presa in giro. E invece noi arrivammo con un carico di trote che andava oltre le più rosee previsioni. Lui, la moglie e la cognata, coi relativi figli, si guardavano tra loro stupiti e non riuscivano a spiegarsi come mai lo scherzo non aveva funzionato e due poveri pescatori dilettanti erano riusciti a pescare tutto quel pesce, in un lago abbandonato e derelitto.

Per tutta la durata del pranzo, non si faceva altro che decantare le doti dei due pescatori. Noi facevamo gli umili, attribuendo la maggior parte del merito alla fortuna (sun colpos de canna, non da pesca, naturalmente): io dicevo che era merito del cognato e il cognato diceva che era merito mio e così via, fino alla fine del pranzo. Per noi due pescatori, la vicenda si chiuse lì, ma non per lui che, probabilmente, rimproverò il suo autista di avergli fornito una notizia sbagliata, impedendogli di realizzare lo scherzo e la presa in giro, diretta, soprattutto, al cognato.

Quando finii gli esami, si offrì di accompagnarmi all'aeroporto con la macchina blu e, durante il tragitto, mi mise fra le mani un giornale regionale: Il Bollettino del pescatore, dove c'era un articolo a tutta pagina che diceva: "La Regione ha finalmente approvato il progetto di ripopolamento del lago montano X (non ricordo il nome del lago). E per sottotitolo: Finisce così la lotta che le associazioni sportive hanno iniziato due anni fa.

Mi guardò con sottile ironia, dicendomi: "Ora spiega al mio autista come si fa a pescare pesci in un laghetto che ne è privo. Vorrebbe conoscere il tipo di esca che avete utilizzato".

Capì da solo che si trattava dell'esca che non tradisce mai.

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 30 Novembre 2017 10:01
 

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