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Il Costera Express e la Freccia del Marghine PDF Stampa E-mail
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Lunedì 17 Dicembre 2018 17:25

L’atavica paura del mare dei Sardi, che poi lo hanno scoperto e frequentato, traendone benefici economici e sperimentando sulle spiagge momenti importanti e decisivi d’incontro e di socializzazione

di Orazio Porcu

I Sardi non amano –non amavano- il mare.

Sergio Frau attribuisce questo disamore a uno schiaffo che il mare avrebbe dato alla Sardegna all’incirca dodici-tredici secoli a.C. Schiaffo che avrebbe avuto come conseguenza la scomparsa dei nuraghi dal Campidano e la fuga dei Sardi verso l’interno. Tesi ricca di fascino ma non priva di fondati argomenti di sostegno.

A questa paura ancestrale si sono aggiunti fatti storici precisi, fino a quelli recentissimi dell’ultimo confitto mondiale: un’escursione sulle coste occidentali dell’isola ci consente di scoprire una selva di fortini, di casematte, di casermette mimetizzate nella macchia mediterranea e destinate, nella fantasia di chi le progettò, a fronteggiare lo sbarco degli eserciti “alleati“. I vistosi apprestamenti difensivi non scoraggiarono lo sbarco degli alleati: lo sbarco avvenne, in effetti, in Sicilia, dove gli americani potevano contare su sicuri appoggi locali, e poi ad Anzio.

Lo sbarco, dunque, in Sardegna non ci fu, ma tutti quegli apprestamenti di guerra servirono ad allontanare ancor di più i Sardi dal mare. Poi, concluso il conflitto, iniziò la ripresa di confidenza e di fiducia nel mare. La prima a muoversi fu Alghero che già nei periodi precedenti la prima guerra mondiale ospitava una discreta colonia di stranieri. Sassari dovette aspettare che il sindaco Oreste Pieroni inventasse Platamona e Monti di Mola attese che l’Aga Kan inventasse la “Costa Smeralda”.

Alghero diventò ben presto “la porta d’oro” del turismo sardo: era collegata settimanalmente da un volo charter con Londra e gli algheresi, soprattutto i giovani di sesso maschile, attendevano con ansia, quasi con trepidazione l’arrivo del volo da Londra.

Il Goceano è il territorio dell’ Isola più lontano dal mare. Eppure, allora, anche il Goceano aveva il suo charter: il trenino delle ferrovie complementari partiva da Chilivani alle sei del mattino destinazione Bosa Marina. Saltava, senza dover prendere passeggeri a bordo, Ozieri, Nughedu e Vigne (i vacanzieri di questa zona si erano abituati presto a prendere il treno delle Ferrovie dello Stato a Chilivani per Marinella, cala Sabina, prima e terza spiaggia di Golfoaranci). Olbia non aveva nulla di interessante per i bagnanti: la stazione lontana dalle spiagge, nessun collegamento pubblico, veniva regolarmente saltata come meta di scarso interesse.

Dopo Pattada il trenino diventava “Costera Express”. I passeggeri del “Costera Express” iniziavano a salire a Benetutti e proseguivano a Bultei, Anela, Bono per tutto il territorio fino allo scalo “tecnico” della cantoniera del Tirso. Il treno iniziava ad animarsi a Benetutti con l’imbarco dei primi passeggeri. Il viaggio consentiva di godere le bellezze del Goceano: subito dopo la partenza le terme di San Saturnino e la chiesa campestre dedicata allo stesso Santo, il rigagnolo estivo del Tirso, un nastro di intenso verde cucito sul fondo valle, quasi a contrastare il giallo abbacinante delle stoppie e dei pascoli estivi, tutti i paesi incollati, in ordine sparso sul fianco della montagna (Sa Costera) poi Esporlatu e Burgos col castello della prigionia della giudicessa Adelasia, e finalmente Tirso Scalo, qui il “Costera Express” diventava “La freccia del Marghine”, in attesa si poteva godere di un po' di frescura e, all’occorrenza, consumare un veloce spuntino a base di pane e formaggio. “La freccia del Marghine” (Nuoro-Macomer-Bosa) aveva un itinerario altrettanto interessante: Lei, Bolotana, Silanus con la splendida chiesa di Santa Sabina che dal treno quasi la tocchi con mano e, a guardia, il nuraghe adiacente, e poi Macomer, il capoluogo del Marghine.

Appena fuori Macomer il nuraghe di Sant’Alvara e il “monte Muradu” secondo la leggenda, luogo dell’omicidio del poeta Melchiorre Murenu, poi una bella opera di ingegneria, “i ponti di Bosa”, un interessante nodo per la viabilità del territorio (vi si intersecano e vi si sovrappongono la strada statale per Bosa, la linea ferroviaria delle Complementari e la ferrovia Chilivani-Macomer), un breve tratto in salita e poi la cantoniera di Bara, uno splendido nuraghe e una incantevole vista su buona parte dell’altipiano di Campeda, Sindia, Suni con i vicini paesi della Malvasia e dell’asfodelo. Il viaggio si avviava al termine: quasi subito dopo la partenza da Suni si intravvede l’abitato di Bosa, coloratissimo e sorvegliato dall’imponente mole del Castello di Serravalle. L’arrivo a Bosa è con questa splendida immagine negli occhi e, nelle orecchie, quasi nel naso, i famosi versi di Melchiorre Murenu;

Cantu b’ada in s’inferru fogu e famen

E dogni patimentu illimitadu,

una mente distint’hat computadu

ch’in Bosa b’hat fiagu e ledamen!

Del resto, l’attività industriale di Bosa (la concia delle pelli attiva e fiorente fino ai primi decenni del secolo XX) aveva lasciato i suoi ricordi, oltre agli stabilimenti sulla riva sinistra del Temo proprio di fronte al centro della cittadina. Sensazioni che all’arrivo a Bosa Marina sparivano quasi per incanto. Il charter Bono-Bosa a destinazione: quasi quattro ore nelle carrozze con i sedili di legno, ma a giudicare dai volti soddisfatti e sereni tutto è andato bene!

L’arenile pulito, i casotti e la flotta di pattini di thiu Romolo allineati sulla battigia, quasi in attesa dei bagnanti. Dal treno si scendeva rigorosamente in ordine: prima le donne, quelle di una certa età dai quaranta in su che si avviavano velocemente a occupare il casotto-spogliatoio e poi a preparare lo scavo nella sabbia rovente per le sacre sabbiature; poi i giovani, maschi e femmine, con la fretta di buttarsi in acqua; infine gli uomini con i bagagli, la bisaccia con le provviste del giorno e con l’immancabile fiasco del vino. In pochi minuti la spiaggia si animava e assumeva l’aspetto variopinto di una distesa multicolore di ombrelloni, ciascun bagnante rigorosamente con il proprio, e in quella selva spiccava il verde di qualche parapioggia della nostra tradizione agricola.

Noi del Meilogu eravamo più fortunati: un servizio domenicale e festivo ci scaricava in spiaggia entro le nove e quindi quando arrivava la “Freccia del Marghine” avevamo già un’oretta di sole. Attendevamo che la prima confusione si calmasse e, facendo finta di passeggiare, facevamo un giro di curiosità.

Non era necessario mettere alla prova la generosità dei “costerini”: un bicchiere di birra, o più spesso di vino, ci veniva offerto subito ed era l’inizio dell’incontro del giorno:

- In grazia, de ue sezis?

Nella domanda non c’era nulla di diffidenza o di sospettosità, era più semplicemente un bisogno di conoscenza reciproca. Finiva spesso che le nostre provviste si unissero alle loro. In quelle tavolate sulla sabbia, sotto gli ombrelloni, nascevano interessanti conversazioni sui nostri rispettivi paesi: usi, abitudini, tradizioni, poeti locali o cantanti a chitarra, feste e così via. Le “janas” de “sa pedra mendalza” di Giave si mescolavano a “sas pantasimas” del castello di Burgos, “sos caddos bildes” di Padria e la Voragine carsica di “Mammuscone” di Cossoine entravano nella cultura popolare degli amici del Goceano e a noi restavano notizie del bosco di tassi di Monte Pisanu.

C’erano poi le cose comuni, “mutos e gosos” delle poesie popolari e le leggende di Maria filonzana” certamente derivata dal mito greco e latino della Parca incaricata di filare il filo della vita degli uomini. Ma soprattutto si mescolavano le nostre parlate, vocaboli del nostro logudorese rimbalzavano nel goceanino e viceversa. Di solito ci si dava appuntamento alla domenica successiva:

- Torrades dominiga chi ‘enidi?

- Ello nono?

- Tando a nos bider sanos e faghide viaggiu ‘onu!

La conoscenza continuava e si consolidava per un’estate e spesso per anni. Il “Costera express” e “La freccia del Marghine”, avevano fatto il miracolo: avevano unito due territori e due popolazioni separate appena dalla catena di colline, neanche molto alte, del Goceano.

 

 

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